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LEONARDO CALAMASSI – DOTTORE COMMERCIALISTA

Gli ISA: premessa generale

Gli indici sintetici di affidabilità fiscale[1] (ISA)

Gli indici sintetici di affidabilità fiscale[1] (ISA) hanno sostituito gli studi settore, in via definitiva, a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2018[2].

Trattasi di uno strumento, disciplinato dall’art. 9-bis del d.l. n. 50 del 2017[3], finalizzato, da un lato, a “favorire l’emersione spontanea delle basi imponibili” e, dall’altro, a “stimolare l’assolvimento degli obblighi tributari da parte dei contribuenti”, esercenti attività di impresa, arti o professioni, con un rafforzamento della collaborazione preventiva con l’Agenzia delle entrate[4], segnatamente, in materia di imposte sui redditi e di iva.

Rispetto agli studi di settore, gli indici di affidabilità sono “elaborati con una metodologia basata su analisi di dati e informazioni relativi a più periodi d’imposta”, anche alla luce dei valori economici, contabili ed extracontabili dichiarati da parte dei contribuenti interessati[5], mediante la compilazione di appositi modelli per la comunicazione all’Agenzia delle entrate dei dati rilevanti, che vanno tramessi in via telematica unitamente alla dichiarazione dei redditi e ne costituiscono parte integrante[6].

Gli indici in esame consistono nella “sintesi di indicatori elementari” ed hanno come finalità la verifica della “normalità” e della “coerenza della gestione aziendale o professionale”[7], poiché permettono una valutazione, come fosse una pagella di tipo fiscale, da uno a dieci, sulla base del grado di affidabilità riconosciuto a ciascun contribuente sottoposto alla disciplina.

Tanto più il contribuente è considerato affidabile, sul versante fiscale (ovviamente con una valutazione vicina al valore più elevato: 10), tanto più avrà accesso al regime premiale descritto nell’11° comma dell’art. 9-bis[8]

Gli (ISA) sono sottoposti a revisione periodica (almeno ogni due anni), valorizzano il fattore territoriale e la loro elaborazione tiene conto di una specifica metodologia statistico-economica[9].

I dati rilevanti, ai fini della progettazione, realizzazione, costruzione e applicazione degli indici, vengono desunti sulla base di numerose fonti, vale a dire le dichiarazioni fiscali[10], le “fonti informative disponibili presso l’anagrafe tributaria, le agenzie fiscali”, l’I.n.p.s., l’Ispettorato del lavoro, la Guardia di finanza e, infine, in via residuale, anche sulla base di “altre fonti”[11] non meglio precisate[12].

Il risultato finale dovrebbe essere in grado di meglio cogliere l’effettiva realtà economica del Paese e dei singoli contribuenti, anche perché tale struttura accomuna i 175 modelli relativi ai 5 comparti economici (agricoltura, manifattura, servizi, commercio e professioni) che, tuttavia, si suddividono in due grandi gruppi, quali gli ISA ordinari (che derivano dagli studi di settore) e gli ISA semplificati(che derivano dai parametri).

I principi sottostanti gli Isa mantengono una indubbia comunanza con gli studi di settore.

Tuttavia, vi è anche da dire che – mentre gli studi di settore hanno stimato la congruità dei ricavi e dei compensi del contribuente in relazione all’analisi del sistema complessivo di gestione dell’attività esercitata, comparata con soggetti strutturalmente analoghi – gli Isa, invece, stimano l’affidabilità fiscale dei contribuenti attraverso il contributo di indici di coerenza e normalità economica che prima negli studi di settore non gravavano nemmeno sulla stima di congruità di ricavi e compensi.

Gli studi di settore (tra giurisprudenza passata e presente): la nozione di grave incongruenza dello scostamento

Tanto detto degli Isa, deve segnalarsi la permanente prolificità della giurisprudenza inerente la pregressa attività di accertamento mediante studi di settore.

Uno dei profili che, spesso, riguarda il contraddittorio di tal tipo di contenzioso, è l’esame della norma dell’ art. 62- sexies, comma 3, del D.L. n. 331/1993, e soprattutto dell’inciso in cui prevede che:

“… gli accertamenti … possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore”.

La formulazione della disposizione ha sempre sollevato, sotto il profilo sistematico, un interessante interrogativo di ordine teorico che ha altrettanti risvolti pratici e che riguarda la nozione di grave incongruenza.

Essa, come affermato dalla giurisprudenza (Cassazione civ. n. 8855/2019), non ha una rilevanza di carattere assoluto e nemmeno è ricavabile da soglie fisse di scostamento, ma ha una natura relativa e mutevole, a seconda dei plurimi fattori proprio della singola situazione economica, del periodo di riferimento e della storia commerciale del contribuente accertato e del segmento di mercato in cui opera. Addirittura, sono stati ritenuti scostamenti lievi e (come tali) inidonei alla rettifica dei redditi, quelli del 4,23% (Cassazione civ. n. 17486/2017), del 7% (Cassazione civ. n. 20414/2014), del 10% (Cassazione civ. n. 2637/2019) e addirittura del 21% (Cassazione civ. n. 22946/2015).

Appena di recente la Suprema Corte, con la sentenza n. 2102 del 29 gennaio 2021, ha scrutinato il caso sorto in seguito all’applicazione degli studi di settore, ove l’Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento nei confronti di un contribuente, esercente attività di manutenzioni edili, in quanto l’ammontare dei ricavi dichiarati era inferiore a quelli desumibili dagli studi di settore.

Il giudizio finale si è rivelato sfavorevole al contribuente poiché i giudici di piazza Cavour hanno, in conclusione, ritenuto che, al fine di individuare divergenze significative tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore, si può anche ricorrere alla novella di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e b), del d.p.r. n. 570/1996.

Di conseguenza, lo scostamento di almeno il 10% tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore può rappresentare una soglia di sbarramento idonea a far ritenere che una percentuale di scostamento superiore può costituire uno degli indici spia della grave incongruenza dello stesso.

Di conseguenza, in tema di accertamento basato sugli studi di settore, anche alla luce della giurisprudenza eurounitaria, tale presupposto è necessario anche per gli avvisi di accertamento notificati dopo il 1° gennaio 2007, siccome l’art. 10, comma 1, della L. n. 146/1998, pur dopo le modifiche apportate dall’art. 1, comma 23, L. n. 296/2006, continua a fare riferimento al detto art. 62 sexies che non può così ritenersi implicitamente abrogato (Cfr. Cassazione civ. n. 8854/2019).

In precedenza, la giurisprudenza di merito e di quella di legittimità, ha sempre ritenuto che la presunzione semplice, scaturente dalla divergenza tra ricavo dichiarato e ricavo puntuale, desumibile dallo studio di settore, pur abilitando l’Agenzia delle Entrate, ad attivare il procedimento di accertamento in base allo studio di settore, non  legittimava la stessa all’emanazione di avviso di rettifica fondato, esclusivamente, su tale divergenza, imponendole invece l’obbligo di invitare il contribuente a un contraddittorio preventivo, onde fargli indicare le ragioni ostative all’applicazione dello studio di settore ovvero quelle utili a giustificare l’anzidetto scostamento (dagli  impedimenti  allo svolgimento dell’attività derivanti da fatti personali, alle caratteristiche organizzative dell’attività, alle eventuali crisi del settore).

In questo modo, l’Agenzia aveva contezza di fatti da prendere obbligatoriamente in considerazione di prendere in considerazione, tanto da dover notificare l’accertamento munito di motivazione del disconoscimento o della confutazione dell’esistenza dei fatti addotti in sede di contraddittorio amministrativo.

Fonte www.commercialistatelematico.com

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